• Novembre 21, 2024 10:39 am

Il periodico

Ripetizioni e Corsi online

Prosegue il nostro appuntamento settimanale con i ricercatori dell’Istituto Regina Elena di Roma.
In questa occasione abbiamo avuto l’opportunità di poter parlare con il Dott. Stefano Piccolo, del Dipartimento di istologia, biotecnologia e microbiologia dell’Università di Padova.
Abbiamo parlato con lui del processo di proliferazione delle metastasi.
Che cosa è il gene P63 e quale è la sua importanza?

Questo gene ha diverse funzioni, una delle più importanti è quella di fare da scudo alla proliferazione delle metastasi. In poche parole, cellule che hanno elevati livelli di questo gene,  rispetto ad una progressione in senso maligno sono più protette delle altre.
In che modo il P63 interviene bloccando il processo di degenerazione delle cellule?
Questo non è ancora stato chiarito. Quello che abbiamo potuto appurare è che P63  previene la loro degenerazione in senso metastatico evitando che queste proliferino in altri organi. Il modo in cui mette in atto questa attività di difesa è attraverso la regolazione di due geni, che stiamo tutt’ora studiando, che realizzano le funzioni antimetastatiche. La scoperta di questi due geni, che potremmo definire “spia”, ci permette di poter effettuare una diagnosi preventiva del tumore. Il passo successivo sara’ utilizzare questi geni spia per scoprire farmaci contro cellule metastatiche. L’idea e di riuscire a curare tumori in stato già avanzato. Ma ci vogliono tanti anni di studio e anche tanta fortuna.
Si può fare una stima di quando tutto questo potrà essere applicato alla cura?
La ricerca come sapete non ha una scadenza, è impossibile dare un termine preciso dei tempi necessari ad ottenere risultati, la probabilità di intoppi è ad ogni angolo, si lavora nel buio e non è possibile prevedere le risposte che avremo dai nostri modelli, ne la tossicità dei composti che vengono identificati.
A che punto è la ricerca sul cancro?
Negli ultimi cinque anni ha fatto dei passi fenomenali. La grande forza che possiamo mettere in campo oggi è una diagnostica molto avanzata, possiamo verificare non solo la presenza di tumori ma anche definirne sotto-tipi. Quello che il grande pubblico non sa è che, ad esempio, il tumore alla mammella non è per tutti uguale, ognuno è guidato da un fuoco di mutazioni genetiche completamente differente. Bisogna quindi cominciare a fare delle sotto-categorie. Un tumore che un patologo classificherebbe in modo identico ad un altro, in realtà potrebbe essere completamente diverso. Ed è per questo che è necessario pensare ad  interventi di cura più mirati che vadano a colpire in modo specifico il tumore. Questa idea passa sotto la generalizzata denominazione di medicina personalizzata.
Sarà chiaramente difficile ideare dei farmaci ad hoc per ciascuno, però si potrà pensare a dei farmaci che funzionano in determinate categorie di pazienti. Questo lascia sperare che nei prossimi cinque anni si possa giungere a risultati significativi.
Ad esempio l’Airc, l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro, ha in questi mesi finito di bandire un progetto strategico, grazie al quale si cerca di finanziare quei programmi che in un arco di cinque anni possano portare al letto del malato applicazioni della ricerca.
Non è un’impresa difficile categorizzare i sotto-generi di tumore?
No, perché oggi le tecnologie molecolari sono a disposizione ed è possibile categorizzare i tumori in funzione di quello che è il loro profilo genetico, in funzione di quei geni che esprimono o meno fluttuazioni di acidi nucleici dentro le cellule tumorali, se non, addirittura, delle cellule staminali di quei tumori.
Il futuro quale sarà?
Non andare ad interrogare il tumore una volta che è stato espiantato al paziente, ma addirittura cercare di fare un profilo nella maniera meno invasiva possibile, ad esempio attraverso un prelievo sanguigno.
Questa potrebbe essere la futura frontiera della diagnostica, sempre che ad un preciso “profilo molecolare” corrispondano poi effettive opzioni terapeutiche.
Ma tutto ciò che costi ha?
I costi della ricerca sono altissimi, è difficile fare apprezzare tutto questo al grande pubblico. Più si cerca di fare delle cose innovative e di frontiera più ci si deve scontrare con le difficoltà di vicoli ciechi e problemi in ogni dove. Ci sono poi i costi umani, difficilmente quantificabili: non ci sono orari se si vogliono raggiungere i risultati e le famiglie pagano un prezzo elevato.
Il lavoro di chi coordina un laboratorio è un lavoro multi-tasking, devi cercare di motivare le persone, procacciare i soldi, scrivere i lavori, risolvere i problemi. Coordinare tutto ciò è ovviamente impegnativo e difficoltoso.
A proposito di questo in Italia quale è il rapporto fra le Istituzioni pubbliche e la ricerca?
Molta della ricerca italiana, finalizzata alla cura di malattie come il cancro è oggi finanziata da Fondazioni come Airc o Teleton, che fanno tantissimo per la ricerca del nostro Paese e senza le quali probabilmente molti laboratori chiuderebbero. Questo sistema crea una grossa incertezza. Per far funzionare al meglio le cose ci dovrebbe essere un filone di ricerca fondamentale affiancato dalla ricerca applicata. La ricerca fondamentale dovrebbe essenzialmente essere finanziata dallo Stato, però i finanziamenti pubblici oggi, sono talmente esigui che a fronte dei costi, di personale, reagenti e tutto ciò che serve per far funzionare un laboratorio, sarebbe pressoché impossibile avviare un qualsiasi tipo di ricerca. Anche perché ad un certo livello conta una massa critica di persone non si possono fare i  miracoli con un solo ricercatore. Non ci si confronta con il collega di università, spesso il palcoscenico della competizione è il mondo.
Lei ha passato un lungo periodo all’estero, ecco, com’è la situazione fuori dall’Italia?
La situazione è molto competitiva, non è che fuori dall’Italia sia così semplice reperire le risorse come si tende a credere.
I Grants del NIH negli Stati Uniti sono ad un grado di approvazione che mi dicono essere inferiore al 10%, meno di 1 su 10, forse sono 1 su 20, quindi la competizione è fenomenale anche li’. Ma quello che sembra essere diverso e’ l’affidabilita’ del sistema. Li’ lo stato c’e’, sara’ dura, ma c’e’ fiducia nel “sistema”. Per es. in Italia manca la certezza che i fondi verranno stanziati entro quella data una o due volte l’anno e che vengano poi distribuiti a persone valide. Manca una cultura della valutazione del curriculum del ricercatore, che dovrebbe fornire invece ampie garanzie. Non e’ chiaro se i progetti di ricerca vengano valutati in modo giusto ed omogeneo ecc.

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